Sono sempre stata attratta dal sogno autarchico in relazione all’economia domestica.
Orto, galline, vestiti fatti in casa, girare in bicicletta, pianificare e organizzare la casa e la famiglia secondo metodi anticonsumistici, con poca plastica e tanta natura.
E’ una idea che mi affascina: utilizzare l’intelligenza moderna e produrre un reddito che non abbia a che fare con il mercato. Adoro anche il semplice baratto.
Il mio reddito più importante per gli anni in cui ho allevato i miei bambini è stato il risparmio organizzato. E’ una cosa di cui sono molto orgogliosa. Da buona cittadina sono partita credendo che ci fossero solo tre specie di animali che volavano, i passeri, le mosche e le zanzare e in un paio di anni in campagna sono arrivata a conoscere le migliori metodologie di agricoltura biologica: facevo innesti, talee, margotte, semine, preparavo il compost, e i decotti di ortica (che raccoglievo da sola) per creare degli fitostimolanti naturali, concimavo e aravo e utilizavo gli insetti per la lotta biologica alle malattie. Avevo un orto talmente curato e produttivo da suscitare la gelosia di mio marito che mi diceva: “ti occupi più dell’orto che di me”.
Nello stesso modo ho imparato a cucire; sono partita sapendo a malapena cosa fosse un ago e ho fatto abitini romantici per mia figlia fino a che non ha compiuto i 13 anni, quando ha deciso che preferiva un look heavy metal da maglietta stampata; ho imparato ad usare la macchina per cucire, ho fatto un minicorso di sartoria e ancora adesso, quando trovo il pezzo di stoffa giusto, mi faccio gli abiti, compresi i pantaloni e nessuno nota che sono fatti in casa se non lo dico io.
Ho arredato la casa con l’arte del recupero: so carteggiare, inchiodare, verniciare, montare cornici, e anche frugare nei mercatini dell’usato e dei robivecchi fino a trovare gli oggetti che, trasformati nel modo giusto, possono soddisfare il mio senso estetico e pratico. Nella cura della casa ho imparato tutti i trucchi per non spendere e ottenere il massimo del pulito con poco sforzo. Persino il mio aspirapolvere non ha i sacchetti di carta, ma va ad acqua.
Di tanto in tanto usavo anche le mie conoscenze professionali (sono direttore tecnico di agenzia turistica) per arrotondare quella che era la mia vera ricchezza.
Mentre stavo costruendo il mio mondo economico e coltivavo l’amicizia con le altre madri altrettanto autarchiche che vivevano vicino a me, un bel giorno del 1989 entrai in casa della mia mamma e ci trovai un enorme distintivo della Lega Lombarda.
Era davvero enorme, almeno mezzo metro di diametro, e campeggiava sull’anta del mobiletto scolapiatti sopra il lavandino della cucina. Impossibile non vederlo e non considerarlo. Era chiaro che mia mamma aveva qualcosa da dirmi.
Fino a quel momento, della Lega Lombarda sapevo solo quello che dicevano i giornali del tempo: “ un gruppetto esiguo di razzisti di Varese che l’avevano a morte con i meridionali”. Però la mia mamma era stata ad un incontro pubblico con Bossi e ne era uscita con quell’adesivo e con una combattività e una forza che non mi sarei mai aspettata da lei che era una catechista e sicuramente non era mai stata, né sarebbe mai stata, razzista.
Mi fece un comizio di quasi quaranta minuti dal quale maturai l’idea che dovevo assolutamente sentire cosa avevano da dire questi leghisti.
Ci volle un anno prima che io e mio marito riuscissimo a trovare il gruppo di leghisti più vicino a casa. Li trovai proprio nel mio paesino. Erano lì da un tre o quattro anni e non li avevo mai notati tanto facevano i carbonari. Nel 1990 firmammo la prima tessera della Lega Nord Lega Lombarda, intestata a mio marito. Poi, io e lui andammo, con i bambini al seguito, a sentire parlare Bossi e capii che io ero sempre stata una leghista ma non lo sapevo.
Cosa mi aveva colpito di Bossi al punto da riconsiderare il fatto che a me i politici non piacevano?
C’erano moltissime cose: innanzi tutto ce l’avevano tutti a morte con lui. Il potere politico che tanto odiavo e che cercavo di sfuggire facendo la mamma autarchica gli si scagliava addosso in un modo talmente violento che lo avrebbe reso interessante anche se non avesse avuto niente da dire.
Gli slogan che lanciava non avevano le rime, non erano studiati a tavolino, ma erano il grido libero di una persona normale che non ne può più.
Niente abiti da fighetto; ti diceva che le ingiustizie in cui non si riusciva neppure a capirne la genesi erano fatte apposta.
Man mano che lo sentivo parlare ogni cosa prendeva un senso, persino la mia rabbia e la mia ribellione.
Non vi dico che seguisse un filo logico, nei comizi. Certe volte, anzi, non riuscivo nemmeno a capire che relazione ci fosse fra le diverse parti dei suoi discorsi. Però mi bastavano 4 o cinque delle frasi che diceva per capire dove volesse andare a parare, cosa stava succedendo e cosa si sarebbe dovuto fare.
Quindi la mia ribellione al sistema italiano che si era concretizzata nel ritiro autarchico e campagnolo aveva finalmente trovato un sfogo e da ribelle casalinga sono diventata una ribelle militante.
Poi è arrivato il 1996 con la dichiarazione di indipendenza della Padania, che è stato il giorno più importante della mia vita dopo quello della nascita dei miei figli e quello del matrimonio, e nel 1998 la nascita degli Orsetti Padani.
Ecco questo passo è andato così: avevo litigato con le insegnanti dei miei figli perché colpevolizzavano i bambini per le scelte politiche dei genitori. Al secondo episodio finì in baruffa e proprio in quel momento sul Sole delle alpi, il mensile della Lega Nord che usciva allora in edicola, una mamma che aveva i miei stessi problemi pubblicò il suo numero di telefono. La chiamai, la settimana dopo ero diventata la referente degli orsetti padani per la provincia del Ticino e nel 2001 la presidente della associazione Orsetti padani, mi presentai alle elezioni del consiglio di istituto della scuola dei miei figli e fui eletta. La prima battaglia fu sui crocefissi (volevano toglierli dalle aule), e da quel momento in poi, a scuola, le cose cambiarono parecchio.
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